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Nella “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”, abbiamo parlato con chi conosce realmente il problema, con chi ascolta, 365 giorni l’anno, le vittime che subiscono la prepotenza umana, portando dentro e fuori le cicatrici di un’esistenza vissuta nel terrore quotidiano. Il Tenente Giada Conti, Comandante del Nucleo Operativo Carabinieri della Compagnia Piazza Verdi, nonché attualmente coordinatrice della rete antiviolenza del Comando Provinciale di Palermo ci ha spiegato come funziona la “Stanza dell’ascolto”.
Tenente, come funziona questa stanza?
Questa è una stanza per le audizioni protette, dove portiamo le ragazze, i bambini, e comunque le vittime vulnerabili, nella misura in cui si presentano in caserma per rappresentarci di aver vissuto un contesto di violenza. Ha un arredo molto informale, perché il nostro obiettivo è quello di far sentire la vittima a proprio agio, tranquillizzarla, insomma non fargli vivere quella che viene definita vittimizzazione secondaria, cioè il trauma legato al dover ripetere le esperienze drammatiche subite in un contesto magari molto formale e militare, come potrebbe essere un ufficio. Qui abbiamo delle strumentazioni che ci permettono di videoregistrare le escussioni e quindi capire le espressioni, il linguaggio non verbale, della parte offesa. Quando una persona vive un trauma, spesso gli viene più facile comunicare con le espressioni, con i gesti, piuttosto che con le parole. Questo sistema di video registrazione ci consente di carpire questo linguaggio non verbale e non costringere la vittima a esplicitare per via verbale proprio tutto. Quindi questa è la finalità di questa stanza. Per altro, è in una posizione un po’ defilata della caserma, molto riservata, con la porta coi vetri oscurati per garantire alla persona, alla donna, ai minori, la giusta privacy che gli consenta di parlare liberamente. Molte persone vengono qui anche per chiedere soltanto un consiglio. Capita molto spesso. Nelle situazioni più drammatiche noi consigliamo in maniera convinta, con competenza, di procedere con la denuncia, ma quella è una scelta che può fare solo la vittima.
E se la vittima di violenza decide di non fare la denuncia?
Dipende. Ci sono alcuni reati che sono procedibili di ufficio, quindi comunque c’è un obbligo d’intervento. Stiamo parlando dei casi più gravi. Ci sono altri casi nei quali, invece, la valutazione è rimessa alla vittima che può decidere se sporgere o no la querela. Se non vuole sporgere querela, noi non andiamo oltre.
Ma se c’è un reato aldilà della denuncia il filmato può essere usato come prova?
Sì.
Questo servizio si svolge in tutta l’Italia oppure è una particolarità di Palermo?
L’Arma dei Carabinieri insieme alla Soroptimist International d’Italia, sta creando in tutto il Paese questo genere di spazio. A Palermo e provincia ne abbiamo quattro: una al Comando Provinciale, una a Monreale, una alla Stazione Palermo Oreto e un’altra a Cefalù. Però in Italia sono veramente tante e stanno crescendo ogni giorno.
Questa stanza viene usata tante volte?
Assolutamente sì. Quest’anno l’abbiamo usata decine e decine e decine di volte. Tutte le stanze sono molto utilizzate.
Le donne sanno dell’esistenza di questo spazio?
Molto spesso non lo conoscono e lo scoprono. Spesso vengono in caserma o presso le stazioni dell’Arma, con l’intenzione di denunciare direttamente la violenza subita.ç
Qual è il profilo professionale del personale che ascolta?
A livello nazionale esiste una rete di monitoraggio che mira a dare anche delle procedure d’intervento a uso e consumo dei vari militari sul territorio. A Palermo però abbiamo in aggiunta una rete antiviolenza provinciale, quindi dei militari che sono stati specificamente formati per saper trattare le vittime di violenza di genere, che sono i principali utilizzatori di queste stanze.
Oltre a questa formazione di genere c’è qualcun’altra specializzazione?
Il nostro personale, formato soprattutto da donne, segue un percorso di formazione interno, reso quanto più possibile multidisciplinare. Si avvale di psicologi, magistrati che possano trasfondere la loro specifica professionalità, ma segue anche dei percorsi formativi esterni.
Avete una laurea in psicologia?
No, però seguiamo degli incontri che ci danno quelle nozioni di psicologia, che ci servono per condurre le escussioni.
Se una vittima decide di non denunciare c’è comunque qualche inseguimento dopo?
Quando parliamo di reati di genere, ci riferiamo in realtà ad uno spettro di condotte tipiche estremamente ampio, quindi andiamo dagli atti persecutori e maltrattamenti in famiglia, alle semplici lesioni oppure alle minacce. Ovviamente ogni caso ha delle sue specificità quindi fare un discorso generale è complicato. La nostra priorità assoluta è tutelare la vittima, quindi, se ci troviamo davanti ad una situazione di pericolo, di fronte ad un reato da querelare, ma la persona non vuole procedere, per essere sicuri che la questa sia in sicurezza, svolgiamo comunque qualche accertamento discreto e non invasivo, che non la metta in difficoltà. Anche un semplice passaggio di una pattuglia in zona per monitorare che sia tutto quanto tranquillo.
C’è un profilo tipo della vittima?
No. Le vittime sono di qualsiasi età ed estrazione sociale, non c’è un profilo. Potremmo individuare un profilo di aggressore, però, anche lì non in termini di età o estrazione sociale, ma di approccio psicologico alla vittima. Gli aggressori sono molto spesso delle persone che non percepiscono il partner come egualitario rispetto a lui, ma in una condizione quasi di sudditanza. Cercano di imporgli un proprio stile di vita, dei propri atteggiamenti, e nella misura in cui lei non accondiscende a queste imposizioni ne deriva la reazione violenta. Quindi cerchiamo di fare anche prevenzione educando le nuove generazioni ad una cultura dell’uguaglianza interpersonale che sia vera, che sia reale, cioè le persone devono capire che non hanno diritti su altri, o meglio, che tutti quanti hanno gli stessi diritti e gli stessi doveri. Non ci sono persone di serie A e di serie B, non ci sono persone che possono imporre altre persone assoggettate. Anche le crisi familiari vanno sempre risolti con il dialogo in una condizione di parità e di scambio. È quello che stiamo cercando di far capire anche con convegni nelle scuole.
E tra i ragazzi si vede qualche tipo di cambiamento?
Nelle scuole l’approccio è quasi sempre molto positivo. Quindi abbiamo la forte speranza che queste nostre iniziative, sempre rese possibili dalla collaborazione dei vari istituti scolastici, si efficaci. Perché i volti dei ragazzi quando andiamo nelle scuole sono molto spesso positivi e ben disposti. Certo, il lavoro da fare è molto ampio, anche perché viviamo in una cultura che ha ancora molti stereotipi nel linguaggio comune che si porta dietro dal passato, e combattere uno stereotipo non è facile. Però ci stiamo lavorando.
Nella stanza ci sono dei giocattoli per i bambini. Quando la vittima racconta la sua esperienza, il bambino resta con lei oppure c’è una procedura specifica per loro?
Dipende. Se il bambino è molto piccolo e ha bisogno delle immediate cure materne, cerchiamo di non separarli, anche perché se è molto piccolo, comunque il verbale, il contenuto della discussione, non lo focalizza molto. Abbiamo qui vari giochini e quindi cerchiamo di tenerlo impegnato. Se però è un po’ più grande, noi non lo ascoltiamo mai se non con la presenza di uno psicologo. Anche i minori possono essere ascoltati, ma con tutta una serie di accorgimenti ulteriori, cioè, con un esperto di psicologia infantile che presenzia e che molto spesso conduce le discussioni, quindi nell’immediatezza è raro che sentiamo il minore. Cerchiamo di affidarlo a qualcuno di specchiata condotta, un familiare, un nonno, in modo che la madre sia libera di parlarci per il tempo che serve e il ragazzo sia comunque in sicurezza lontano dal contesto maltrattante.
La camera dell’ascolto è sempre aperta, 24 ore su 24?
Assolutamente sì. Non abbiamo del personale presente h24, ma abbiamo sempre dei militari del pronto intervento che coprono la giornata quindi, se si presenta una donna maltrattata e abbiamo qualcuno in grado di condurre la discussione nell’immediato, donna o uomo, ma che abbia ricevuto una formazione ad hoc, perfetto. Diversamente si chiama un reperibile della rete, un comandante di stazione, un ufficiale idoneo che, anche libero dal servizio, si mette un paio di jeans, scende e fa il suo lavoro.
La camera viene usata soltanto per le vittime di violenza di genere?
La utilizziamo per le vittime vulnerabili, per tutte quelle persone che stanno vivendo un momento di particolare disagio, non per forza donne, non per forza vittime di violenza di genere, non pe forza bambini, anche se rappresentano la maggior parte dei casi che affrontiamo.
C’è qualche storia che l’abbia colpita maggiormente dal punto di vista umano?
Tantissime. La maggior parte recenti. Una cosa che mi ha colpito è che molto spesso la famiglia della donna, quindi della parte offesa, del soggetto maltrattato, tendono ad essere quasi solidale col maltrattante, perché hanno un preconcetto per cui rompere l’unita familiare è un male maggiore rispetto ad altri che vengono percepiti come minori. Questa è una aberrazione che ogni volta che riscontro, mi desta sempre tanta inquietudine. Però questo è uno di quei preconcetti culturali che dobbiamo combattere. Perché la donna si espone ad un altro tipo di violenza e questa è l’aberrazione, proprio il giudizio di familiari che magari non vedono la cosa nella giusta ottica. Ripeto, questo è un percorso culturale di civiltà e maturazione che stiamo via via compiendo.
Quanta strada c’è ancora da fare?
Tanta. Come dicevo prima, non esiste un profilo di vittima o di maltrattante, perché sono di tutte l’età e provengono da tutte le estrazioni sociali. È un percorso ancora lungo, perché abbiamo un’ulteriore difficolta: a volte le vittime non si rendono conto di esserlo e, prima di accettare che il proprio marito o compagno usi la violenza, passa tanto tempo. Spesso arrivano qui da noi, quando la loro situazione si è già aggravata e si è già a un punto di non ritorno, mentre se fossero venute prima, sicuramente saremmo riusciti ad intervenire in maniera più agevole.
E dove dobbiamo intervenire?
In famiglia e a scuola. Se soltanto riuscissimo ad insegnare a tutti che l’uguaglianza non è soltanto scritto nell’articolo 3 della Costituzione Italiana, ma è una verità, un paradigma che può essere anche concretizzato nelle attività di tutti i giorni, non avremmo più degli uomini che si sentono in diritto di imporre con la forza qualcosa a qualcun altro.
©Victoria Herranz for EmmeReports
Tenente, come funziona questa stanza?
Questa è una stanza per le audizioni protette, dove portiamo le ragazze, i bambini, e comunque le vittime vulnerabili, nella misura in cui si presentano in caserma per rappresentarci di aver vissuto un contesto di violenza. Ha un arredo molto informale, perché il nostro obiettivo è quello di far sentire la vittima a proprio agio, tranquillizzarla, insomma non fargli vivere quella che viene definita vittimizzazione secondaria, cioè il trauma legato al dover ripetere le esperienze drammatiche subite in un contesto magari molto formale e militare, come potrebbe essere un ufficio. Qui abbiamo delle strumentazioni che ci permettono di videoregistrare le escussioni e quindi capire le espressioni, il linguaggio non verbale, della parte offesa. Quando una persona vive un trauma, spesso gli viene più facile comunicare con le espressioni, con i gesti, piuttosto che con le parole. Questo sistema di video registrazione ci consente di carpire questo linguaggio non verbale e non costringere la vittima a esplicitare per via verbale proprio tutto. Quindi questa è la finalità di questa stanza. Per altro, è in una posizione un po’ defilata della caserma, molto riservata, con la porta coi vetri oscurati per garantire alla persona, alla donna, ai minori, la giusta privacy che gli consenta di parlare liberamente. Molte persone vengono qui anche per chiedere soltanto un consiglio. Capita molto spesso. Nelle situazioni più drammatiche noi consigliamo in maniera convinta, con competenza, di procedere con la denuncia, ma quella è una scelta che può fare solo la vittima.
E se la vittima di violenza decide di non fare la denuncia?
Dipende. Ci sono alcuni reati che sono procedibili di ufficio, quindi comunque c’è un obbligo d’intervento. Stiamo parlando dei casi più gravi. Ci sono altri casi nei quali, invece, la valutazione è rimessa alla vittima che può decidere se sporgere o no la querela. Se non vuole sporgere querela, noi non andiamo oltre.
Ma se c’è un reato aldilà della denuncia il filmato può essere usato come prova?
Sì.
Questo servizio si svolge in tutta l’Italia oppure è una particolarità di Palermo?
L’Arma dei Carabinieri insieme alla Soroptimist International d’Italia, sta creando in tutto il Paese questo genere di spazio. A Palermo e provincia ne abbiamo quattro: una al Comando Provinciale, una a Monreale, una alla Stazione Palermo Oreto e un’altra a Cefalù. Però in Italia sono veramente tante e stanno crescendo ogni giorno.
Questa stanza viene usata tante volte?
Assolutamente sì. Quest’anno l’abbiamo usata decine e decine e decine di volte. Tutte le stanze sono molto utilizzate.
Le donne sanno dell’esistenza di questo spazio?
Molto spesso non lo conoscono e lo scoprono. Spesso vengono in caserma o presso le stazioni dell’Arma, con l’intenzione di denunciare direttamente la violenza subita.ç
Qual è il profilo professionale del personale che ascolta?
A livello nazionale esiste una rete di monitoraggio che mira a dare anche delle procedure d’intervento a uso e consumo dei vari militari sul territorio. A Palermo però abbiamo in aggiunta una rete antiviolenza provinciale, quindi dei militari che sono stati specificamente formati per saper trattare le vittime di violenza di genere, che sono i principali utilizzatori di queste stanze.
Oltre a questa formazione di genere c’è qualcun’altra specializzazione?
Il nostro personale, formato soprattutto da donne, segue un percorso di formazione interno, reso quanto più possibile multidisciplinare. Si avvale di psicologi, magistrati che possano trasfondere la loro specifica professionalità, ma segue anche dei percorsi formativi esterni.
Avete una laurea in psicologia?
No, però seguiamo degli incontri che ci danno quelle nozioni di psicologia, che ci servono per condurre le escussioni.
Se una vittima decide di non denunciare c’è comunque qualche inseguimento dopo?
Quando parliamo di reati di genere, ci riferiamo in realtà ad uno spettro di condotte tipiche estremamente ampio, quindi andiamo dagli atti persecutori e maltrattamenti in famiglia, alle semplici lesioni oppure alle minacce. Ovviamente ogni caso ha delle sue specificità quindi fare un discorso generale è complicato. La nostra priorità assoluta è tutelare la vittima, quindi, se ci troviamo davanti ad una situazione di pericolo, di fronte ad un reato da querelare, ma la persona non vuole procedere, per essere sicuri che la questa sia in sicurezza, svolgiamo comunque qualche accertamento discreto e non invasivo, che non la metta in difficoltà. Anche un semplice passaggio di una pattuglia in zona per monitorare che sia tutto quanto tranquillo.
C’è un profilo tipo della vittima?
No. Le vittime sono di qualsiasi età ed estrazione sociale, non c’è un profilo. Potremmo individuare un profilo di aggressore, però, anche lì non in termini di età o estrazione sociale, ma di approccio psicologico alla vittima. Gli aggressori sono molto spesso delle persone che non percepiscono il partner come egualitario rispetto a lui, ma in una condizione quasi di sudditanza. Cercano di imporgli un proprio stile di vita, dei propri atteggiamenti, e nella misura in cui lei non accondiscende a queste imposizioni ne deriva la reazione violenta. Quindi cerchiamo di fare anche prevenzione educando le nuove generazioni ad una cultura dell’uguaglianza interpersonale che sia vera, che sia reale, cioè le persone devono capire che non hanno diritti su altri, o meglio, che tutti quanti hanno gli stessi diritti e gli stessi doveri. Non ci sono persone di serie A e di serie B, non ci sono persone che possono imporre altre persone assoggettate. Anche le crisi familiari vanno sempre risolti con il dialogo in una condizione di parità e di scambio. È quello che stiamo cercando di far capire anche con convegni nelle scuole.
E tra i ragazzi si vede qualche tipo di cambiamento?
Nelle scuole l’approccio è quasi sempre molto positivo. Quindi abbiamo la forte speranza che queste nostre iniziative, sempre rese possibili dalla collaborazione dei vari istituti scolastici, si efficaci. Perché i volti dei ragazzi quando andiamo nelle scuole sono molto spesso positivi e ben disposti. Certo, il lavoro da fare è molto ampio, anche perché viviamo in una cultura che ha ancora molti stereotipi nel linguaggio comune che si porta dietro dal passato, e combattere uno stereotipo non è facile. Però ci stiamo lavorando.
Nella stanza ci sono dei giocattoli per i bambini. Quando la vittima racconta la sua esperienza, il bambino resta con lei oppure c’è una procedura specifica per loro?
Dipende. Se il bambino è molto piccolo e ha bisogno delle immediate cure materne, cerchiamo di non separarli, anche perché se è molto piccolo, comunque il verbale, il contenuto della discussione, non lo focalizza molto. Abbiamo qui vari giochini e quindi cerchiamo di tenerlo impegnato. Se però è un po’ più grande, noi non lo ascoltiamo mai se non con la presenza di uno psicologo. Anche i minori possono essere ascoltati, ma con tutta una serie di accorgimenti ulteriori, cioè, con un esperto di psicologia infantile che presenzia e che molto spesso conduce le discussioni, quindi nell’immediatezza è raro che sentiamo il minore. Cerchiamo di affidarlo a qualcuno di specchiata condotta, un familiare, un nonno, in modo che la madre sia libera di parlarci per il tempo che serve e il ragazzo sia comunque in sicurezza lontano dal contesto maltrattante.
La camera dell’ascolto è sempre aperta, 24 ore su 24?
Assolutamente sì. Non abbiamo del personale presente h24, ma abbiamo sempre dei militari del pronto intervento che coprono la giornata quindi, se si presenta una donna maltrattata e abbiamo qualcuno in grado di condurre la discussione nell’immediato, donna o uomo, ma che abbia ricevuto una formazione ad hoc, perfetto. Diversamente si chiama un reperibile della rete, un comandante di stazione, un ufficiale idoneo che, anche libero dal servizio, si mette un paio di jeans, scende e fa il suo lavoro.
La camera viene usata soltanto per le vittime di violenza di genere?
La utilizziamo per le vittime vulnerabili, per tutte quelle persone che stanno vivendo un momento di particolare disagio, non per forza donne, non per forza vittime di violenza di genere, non pe forza bambini, anche se rappresentano la maggior parte dei casi che affrontiamo.
C’è qualche storia che l’abbia colpita maggiormente dal punto di vista umano?
Tantissime. La maggior parte recenti. Una cosa che mi ha colpito è che molto spesso la famiglia della donna, quindi della parte offesa, del soggetto maltrattato, tendono ad essere quasi solidale col maltrattante, perché hanno un preconcetto per cui rompere l’unita familiare è un male maggiore rispetto ad altri che vengono percepiti come minori. Questa è una aberrazione che ogni volta che riscontro, mi desta sempre tanta inquietudine. Però questo è uno di quei preconcetti culturali che dobbiamo combattere. Perché la donna si espone ad un altro tipo di violenza e questa è l’aberrazione, proprio il giudizio di familiari che magari non vedono la cosa nella giusta ottica. Ripeto, questo è un percorso culturale di civiltà e maturazione che stiamo via via compiendo.
Quanta strada c’è ancora da fare?
Tanta. Come dicevo prima, non esiste un profilo di vittima o di maltrattante, perché sono di tutte l’età e provengono da tutte le estrazioni sociali. È un percorso ancora lungo, perché abbiamo un’ulteriore difficolta: a volte le vittime non si rendono conto di esserlo e, prima di accettare che il proprio marito o compagno usi la violenza, passa tanto tempo. Spesso arrivano qui da noi, quando la loro situazione si è già aggravata e si è già a un punto di non ritorno, mentre se fossero venute prima, sicuramente saremmo riusciti ad intervenire in maniera più agevole.
E dove dobbiamo intervenire?
In famiglia e a scuola. Se soltanto riuscissimo ad insegnare a tutti che l’uguaglianza non è soltanto scritto nell’articolo 3 della Costituzione Italiana, ma è una verità, un paradigma che può essere anche concretizzato nelle attività di tutti i giorni, non avremmo più degli uomini che si sentono in diritto di imporre con la forza qualcosa a qualcun altro.
©Victoria Herranz for EmmeReports